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"Storia di una suora inquietante e di un professore" di Stefano Pancaldi

  • Immagine del redattore: Daisy Raisi
    Daisy Raisi
  • 10 ott 2018
  • Tempo di lettura: 2 min

Un libro originale, quello scritto da Stefano Pancaldi, dalla prosa erratica, lo stile dinoccolato, un po’ da freak.

Richiama alla mente il flusso di coscienza di Joyce.

Il virgolettato è assente dai dialoghi. Fra i segni di interpunzione prevale in maniera netta la virgola. Periodi brevi, ritmo narrativo vivace ne sono tratti distintivi.

“Storia di una suora inquietante e di un professore” è originale anche nella struttura. Comincia con un nutrito numero di considerazioni sulla scuola privata e su quella pubblica, per poi proseguire con la descrizione della genesi del romanzo, delle radici familiari del protagonista e sfociare, infine, in un antefatto.

L’autore ha un modo di scrivere vibrante di partecipazione emotiva che coinvolge da subito il lettore scaraventandolo in medias res.

La narrazione è caratterizzata da tante inquadrature rapide che spingono chi legge a cambiare spesso prospettiva. A parlare sono soprattutto le percezioni del protagonista, le sue emozioni. L’intera storia è vissuta attraverso i suoi occhi, i suoi stati d’animo, le sue considerazioni.

Tutto scorre fin troppo velocemente, come nella vita, senza che ci sia nemmeno il tempo di metabolizzare. Numerosi e di spessore gli argomenti trattati. Discriminazioni sociali in seno alla scuola privata cattolica. Indrottinamento ideologico. Follia fondamentalista. Eutanasia. Compromesso fra ideali e realtà. Disfunzionalità delle famiglie. Trionfo del non senso.

Questo libro è anche e soprattutto un romanzo di denuncia sociale.

Nella società odierna ci si rassegna a una vita fatta di incomunicabilità: meccanica, routinaria, ogni giorno uguale, nella quale solo l’incontro con qualche rara anima pura, come quella di Marco o “della bella” può fare la differenza trasmettendo calore, promuovendo un cambiamento autentico.

Ha un lieto fine la storia narrata da Stefano. Perché in fondo il lieto fine è salutare. Perché lo squallore di certa realtà fa male al cuore. Perché il "vissero felici e contenti" è essenziale per preservare un po’ di equilibrio, come è fondamentale che in questo flusso impazzito della vita, colmo di eventi privi di senso e di maschere grottesche, ci sia un riscatto, si intraveda una luce.

Da leggere.




 
 
 

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